Così scriveva Natalia Ginzburg de “Il Lamento di Portnoy”” di Philip Roth:
“Il romanzo è essenzialmente la storia di un’insofferenza: l’insofferenza dei figli verso i genitori. Tutti abbiamo provato, da ragazzi, questa insofferenza. Adulti, la superiamo, andiamo oltre, guardiamo a quell’antica sofferenza, alle nostre servitù antiche, e a noi stessi, con ironia. Guardiamo ai genitori con pietà. Li perdoniamo. Li perdoniamo di colpe che magari non hanno mai commesso; ma perdonandoli, perdoniamo in verità noi stessi, per l’insofferenza, il ribrezzo, i rancori che ci hanno a lungo tormentato, e che erano i vincoli della nostra servitù infantile”.
Trovo che non possa esserci recensione migliore di questo testo che, nel 1969, portò alla luce il talento letterario del grande narratore ebreo-americano. Ma sul quale, appunto, ho una mia visione, condivisa con la Ginzburg.
Il romanzo è un ininterrotto monologo in cui l’io narrante, Alexander Portnoy, riversa sul suo psicanalista, il dottor Spielvogel, e ovviamente sul lettore, frustrazione, egoismi e feroce ironia.
Philip Roth, a mio parere, è grandioso in quello che è considerato da molti il suo capolavoro: “Pastorale americana”. Ma, per conoscere l’autore, vale la pena di leggere anche “Il Lamento di Portnoy”. Ecco la mia video-recensione.